Passando in rassegna alcune definizioni che il dizionario dà dei termini riparazione e riparare, si possono ritrovare alcuni aspetti di quell'insieme di interventi di 'aiuto' al minore che i diversi servizi sviluppano:

riparazione : " a) atto, effetto del riparare di un danno; b) aggiustatura, accomodatura di oggetti rotti, guasti";  riparare: "a) difendere da un pericolo, da un attacco, da un danno, dare riparo ; b) cercare di ottenere rimedio a un male, un danno o un errore, attenuandone o eliminandone gli effetti negativi; c) aggiustare, rimettere in buono stato; (v. intr.) provvedere, badare, curare (es. riparare a una mancanza)".

Riparare richiede tempi e spazi strettamente correlati agli strumenti utilizzati (pur se non solo), il primo dei quali è sicuramente rappresentato dal modello teorico-clinico di riferimento. Esso è sempre presente e va anzitutto esplicitato; dovrebbe essere il più possibile chiaro e sperimentabile e comprendere una lettura sia del quadro clinico del minore (della situazione evolutiva in quel preciso momento, evidenziandone le carenze, i ritardi, le esigenze educative, i bisogni psicoaffettivi, etc.) che della rete in cui egli è inserito. Rete in questo caso significa l'insieme di relazioni affettivamente significative, a partire dall'ambito familiare in quanto nella nostra società la crescita dei minori è affidata principalmente alla famiglia, quindi ai genitori che ne sono responsabili. Quindi, pur con tutte le diversità nei significati, nei ruoli, nel 'peso' concausale, etc. , i componenti del nucleo familiare possono considerarsi (a livelli e con modalità diverse a seconda delle caratteristiche di personalità e della fase evolutiva considerata) elementi della rete di relazioni del minore; rete che va via via allargandosi con l'età ed in modo differenziato a seconda del contesto socioculturale di appartenenza. Altri elementi della rete sono la famiglia allargata, i parenti, gli amici, le istituzioni (scuola materna, elementare, media, etc:), etc.

 

Ritornando al modello teorico-clinico, in questo scritto si fa riferimento alla teoria Funzionale del Sé, modello di personalità di tipo integrato che riferisce all'area della Psicoterapia Corporea. Tale approccio considera  la persona nella sua globalità, sottolineando come la struttura unitaria del Sé si costituisca dinamicamente in una costellazione di processi funzionali psicocorporei, raggruppabili in aree o piani e sottopiani del Sé; piani che sono inizialmente integrati, ma che nel corso dello sviluppo possono differenziarsi, mantenendo comunque una profonda integrazione. L'ipotesi Funzionale individua quattro grandi aree:  Area cognitivo-simbolica (razionalità, ricordi, fantasie), Area emotiva (affetti, emozioni, motivazioni), Area fisiologica (sistemi e apparati interni), Area posturale (mobilità, distretti muscolari, posture).

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Fig. 1: Esempio di Diagramma Funzionale

 

Una concezione di questo tipo permette di approcciare la persona cogliendola nella sua globalità, senza per questo rinunciare ad una precisa e approfondita analisi dei singoli aspetti dell'insieme-organismo. Questo significa riferirsi ad un'ottica epistemologica della complessità che di fronte ad un qualsivoglia evento non ne ricerca più una sola causa (modello di causalità lineare), ma  prende in esame la serie complessa di situazioni o variabili concausali.  Nel modello Funzionale del Sé ogni piano e sottopiano del Sé (in altri termini i vari aspetti dell'insieme 'persona') viene considerato in base alla sua qualità (ipotrofia/ipertrofia, sclerotizzazione, etc.) e nella sua relazione con gli altri piani; la visione d'insieme, che trova una rappresentazione visiva nel diagramma funzionale (Cfr. fig. 1), considera soprattutto i livelli di connessione/sconnessione, congruenza/incongruenza e scissione/integrazione tra i piani. Ai fini dell'intervento è poi altrettanto importante considerare il carattere, inteso come la struttura difensiva che informa tutti i piani del Sé, per la sua funzione aggregante e unificante rispetto ai livelli di sconnessione; carattere che sottende l'insieme delle principali modalità di relazione e di rapporto con l'esterno, che si ripetono uguali a  sé stesse ed in una certa misura indipendentemente dai contenuti contingenti.

Sulla base della diagnosi allargata che considera il soggetto-utente e la rete di relazioni significative nella quale è inserito è possibile scegliere un intervento piuttosto che un altro, o più interventi combinati. Si palesa qui l'importanza e la priorità dello strumento 'modello di riferimento', in quanto la diagnosi  nella sua essenza è una mappa di orientamento fra i molteplici dati di osservazione e come tale è strettamente connessa al modello teorico-clinico, sia esso più o meno esplicitato e più o meno consapevole; al tempo stesso essa è finalizzata ad un intervento, e quindi risente anche della metodologia operativa di chi la formula, in quanto ognuno interviene sulla base di quegli indici che ritiene importanti e determinanti.

Si prenda ad esempio la situazione di una famiglia che non 'tiene', la cui struttura ed il cui funzionamento sono disgregati ed in cui vi sono grosse scissioni tra i piani del Sé del minore legate a gravi carenze sia di tipo socioeducativo che, soprattutto, di tipo psicoaffettivo. Ci si trova di fronte ad un bambino o ragazzo con grave disagio ed a delle figure genitoriali non in grado (spesso per le loro stesse difficoltà emotive, sconnessioni, patologie etc.) di riparare, neppure con un aiuto su più fronti (perché lo rifiutano o perché non presentano una situazione che premetta loro di recuperarsi in tempi sufficientemente brevi, in relazione ai tempi di sviluppo e di strutturazione della personalità del figlio). In casi come questo l'intervento più 'drastico', ma a volte quello con meno conseguenze negative, è certamente rappresentato dall'adozione.

L'adozione è spesso considerata una specie di 'ultima spiaggia' da parte di molti operatori e giudici del tribunale, che tendono a procrastinarne il più possibile l'attuazione. Molte volte si assiste al trascinarsi di situazioni per anni, sempre con l'incertezza e l'ambiguità di una possibile adozione, che diventa così l'elemento dominante e condizionante l'intera dinamica famigliare ed il rapporto con i figli, con gli operatori dei servizi, etc., nel tentativo di mostrare comportamenti ritenuti 'migliori' mascherando o negando le difficoltà, che sono poi sempre alla base dei maltrattamenti. Nel frattempo gli anni passano, il figlio cresce nell'ambiente gravemente inadeguato, e si arriva al punto che qualsiasi intervento venga poi attuato risulti vanificato dal prevalere degli effetti negativi (sempre presenti in ogni intervento) su quelli positivi.

Meno drastico dell'adozione è considerato l'affido. Ad esso si ricorre quando la famiglia non è temporaneamente in grado di provvedere alla crescita psicoaffettiva del figlio e alla sua educazione, e l'inserimento presso un'altra famiglia ha l'obiettivo di fornirgli esperienze e relazioni positive e stimolanti per una adeguata crescita; contemporaneamente si interviene con la famiglia d'origine al fine di realizzare quei cambiamenti che permettano il reinserimento del figlio. L'affido quindi, a differenza dell'adozione, presuppone la possibilità di recuperare o di instaurare un adeguato contesto psicoeducativo nella famiglia originaria.

Questi due interventi, accomunati dal fatto che il minore viene allontanato dalla propria famiglia per essere inserito in un'altra, si differenziano profondamente, tra le altre cose, anche per il tempo e per lo spazio: nell'adozione il tempo è considerato definitivo e lo spazio è contraddistinto dalla lontananza (onde rendere improbabile l'incontro con la famiglia originaria); nell'affido il tempo è limitato e lo spazio ravvicinato in quanto l'ambiente sociale permane simile, per consentire gli incontri e gli scambi con la famiglia d'origine con la quale viene mantenuto il legame di appartenenza.

Un altro strumento sperimentato nel servizio di cui sopra è l'affido educativo (inteso come affido ad un altro nucleo famigliare, ma con rientro serale nella famiglia d'origine), utilizzato in situazioni in cui non sussistevano i presupposti né per l'adozione né per l'affido, quest'ultimo considerato più dannoso che risolutivo (per l'età dei minori, per l'immagine di sé ed il senso di appartenenza, etc.).

 Anche se l'affido educativo si presenta meno 'drastico' dei precedenti rimane comunque un intervento complesso da gestire, per i significati che assume per il minore, per la famiglia di origine, per quella affidataria, etc. . Necessita di molti tempi di riflessione e di continua verifica della presa in carico e di una stretta convergenza (da costruirsi da parte dei diversi operatori interessati) tra i vari soggetti coinvolti, pena il rischio di una aumentata confusività nel minore stesso. Può facilmente rivelarsi frustrante per le famiglie affidatarie, le quali si trovano necessariamente coinvolte a vario titolo nella atmosfera relazionale e negli stili comunicativi della famiglia d'origine, e considerano spesso i propri sforzi vanificati dal rientro quotidiano del minore nella sua famiglia.

Ripensando alle ore trascorse con le famiglie affidatarie accogliendone i disagi e le difficoltà nel tentativo di sostenere ed indirizzare clinicamente l'intervento, si ritiene che l'affido educativo possa attuarsi con efficacia solo in poche situazioni, quando il ragazzo presenta un discreto esame di realtà e le carenze riguardano soprattutto aspetti socio-relazionali; l'efficacia pare ridursi molto in situazioni con grosse carenze psicoaffettive e deficit nella struttura di personalità. Le potenzialità riparatorie dell'affido educativo risiedono infatti nella possibilità da parte del ragazzo (proprio in quanto ragazzo e non più bambino) di sperimentare forme di comunicazione chiare ed adeguate, per poterle confrontare con quelle sperimentate nella propria famiglia al fine di compiere un movimento interno in cui, pur mantenendo il senso di appartenenza alla propria famiglia, si appropri di nuove modalità comunicative perché le ritrova più adeguate per sé.

Un ulteriore strumento che nel servizio si è sperimentato è stato l'intervento educativo domiciliare; ultimo in ordine di tempo, elaborato anche per colmare le carenze dei precedenti e pensato per far fronte a situazioni di disagio socio-educativo in cui non si ritrovano quegli estremi di abbandono, violenza e gravità tali da giustificare un allontanamento dalla famiglia.  Sulla base della constatazione che la famiglia è riuscita e riesce a fornire alcuni elementi educativi e ad assolvere ad alcune funzioni basilari per la crescita del figlio, se ne mantiene la permanenza nella stessa, fornendo una serie di supporti integrativi per quelle funzioni in cui essa è carente. L'elemento portante e centrale dell'intervento è rappresentato dal rapporto che l'educatore/educatrice domiciliare instaura con il minore e con la famiglia, inserito comunque in un più ampio progetto e processo di presa in carico allargata. Il bambino che presenta una situazione di disagio o patologia spesso vive una condizione di scissione o frammentazione tra i vari piani del Sé che si ri­percuote anche sul senso d'identità e di autostima. Tali sconnessioni, storicamente all'origine del disa­gio, trovano frequentemente una risposta parziale da parte dell'ambiente che tende a perpetuarle, acuendo così la conflittualità ed il malessere.

   «Affinché si possa elaborare un intervento che fa­vorisca la diminuzione di sconnessioni all'interno del bambino è necessario formulare un quadro diagno­stico che prenda in esame:

a) qualità e grado di sviluppo dei piani del Sé: (..) ; fase evolutiva raggiunta in ognuno in relazione all'età ed al processo di strutturazione del Sé;

b) rapporto tra i piani, maggiore o minore estensione e sviluppo dell'uno rispetto agli altri, livelli di interazione e connessione attualmente attivi, qualità e grado delle sconnessioni;

c) connotazione del falso-Sé;

d) principali modalità caratteriali di difesa e di rapporto con l'esterno, intendendo il carattere come la struttura difensiva 'che informa di sé tutti i piani funzionali del Sé' [1]

e) caratteristiche delle modalità relazionali in famiglia e nella rete sociale »[2]

 Nella formulazione del quadro diagnostico allargato i principali elementi da considerarsi sono:

1. diagnosi utente-minore

a) area  cognitiva (capacità intellettive, tipo di pensiero, fantasie, simbolismo,  linguaggio, etc.)

b) area emotiva (gamma di espressione/non-espressione delle emozioni, emozione prevalente, emozione che causa difficoltà di  rapporto,  etc.)

c) area fisiologica (condizioni di salute, disturbi, malattie, patologie organiche, etc.)

d) area posturale (atteggiamento posturale, qualità dei movimenti ampi e di quelli fini, prevalenza di movimento o di stasi, etc.)

e) modalità relazionali caratteristiche e ripetitive, socialità con i coetanei e con gli adulti, etc. ;

2. quadro clinico della famiglia di appartenenza, con particolare attenzione alle modalità tipiche, ripetitive e caratteriali di relazione, alle distorsioni comunicative, alle incongruenze o scissioni tra aree del Sé, alle difficoltà relazionali tra le diverse figure, etc.;

3.  profilo della rete socio-affettiva del minore e della famiglia, con particolare riferimento agli elementi significativi (istituzionalmente, culturalmente, affettivamente, etc.), tra cui un posto importante è occupato dall'istituzione scolastica;

4. caratteristiche della storia e dell'attuale inserimento scolastico, sia per quanto concerne l'atteggiamento verso la scuola, il livello degli apprendimenti e lo stile cognitivo, sia per quanto riguarda la relazione con gli adulti e quella con i coetanei.

Il profilo diagnostico del contesto familiare e della rete socio-affettiva prende in esame:

a. I legami tra modalità espressive e comunicative del bambino sui vari piani e risposte dell'ambiente, con particolare attenzione alle caratteristiche di queste comunicazioni, quali ad es. maggiore o minore grado di rigidità, congruenza o incongruenza tra i vari canali comunicativi (ad es. tra verbale, tono di voce, mimica, gestualità, postura, etc.), messaggi diretti o indiretti, consapevoli o inconsapevoli, etc. . Si è infatti rilevato che alle disomogeneità, incongruenze o conflittualità tra i flussi comunicativi della rete corrispondono incongruenze e sconnessioni nella struttura del Sé del bambino (costituendosi infatti la struttura di personalità in fase evolutiva come prodotto della interazione organismo-ambiente, le ripetute disomogeneità, contrasti o conflitti tra i messaggi che ai diversi piani del Sé vengono avviati nella comunicazione comportano una sconnessione o scissione tra gli stessi piani).

b.            I principali nodi nella rete comunicativa, intendendo con 'nodi' le aree maggiormente pregnanti nel mantenere la situazione di disagio, quelle di maggiore conflitto, in cui l'incastro relazionale e comunicativo è particolarmente rigido e ripetitivo ed in cui è carente il contenimento o è eccessivamente ampia la frustrazione dei bisogni evolutivi del bambino; è sull'allentamento e cambiamento dei nodi critici che si incentra l'intervento.

c. I principali punti di forza nella rete, di quelle aree (specificandone il piano o sottopiano del Sé coinvolto) in cui la comunicazione tra bambino e ambiente è congruente, diretta, chiara ed esplicita, e di quegli spazi di rapporto in cui sia possibile sperimentare una regressione profonda in cui possa venir 'recuperata' una precedente fase di integrazione e favorire il riattivarsi del processo evolutivo; è sui punti di forza che può 'poggiare' parte dell'intervento, attraverso la mobilizzazione delle risorse disponibili.

Sulla base della specifica situazione si costruisce un progetto in cui l'intervento dell'educatrice domiciliare può essere finalizzato, a seconda dei casi,  ad esempio a :

  instaurare un rapporto di confidenza col minore, basato sul dialogo, per comprenderne il pensiero, allentare le diffidenze ed i movimenti difensivi di ritiro o di estrema contrapposizione, etc.;

accompagnarlo in un graduale percorso di consapevolezza di sé, accogliendone le espressioni a livello di pensiero, di fantasia, emotive e comportamentali, comprendendone il significato esistenziale e mostrandogli la possibilità di condividerle;

favorire, a partire dalle conoscenze che il bambino ha e dalle sue chiavi di lettura, una graduale conoscenza della realtà esterna, fisica, oggettuale, spaziale, e delle relazioni tra gli eventi nonché della possibilità di influirvi attivamente;

favorire e sostenere la socializzazione con i coetanei, fino, in alcuni casi, a costruire occasioni di incontro con i compagni;

acquisire ulteriori elementi di conoscenza della dinamica famigliare, cercando non tanto di modificarla con consigli o altro, ma facendo da tramite tra genitori e figlio, o tra questi e i fratelli, etc..

L'intervento educativo poggia ed è mediato da una serie di attività, quali ad esempio :

seguire parte dell'esecuzione dei compiti scolastici (motivazione che solitamente          coagula le richieste della famiglia e quelle della scuola) inteso non tanto come mero recupero scolastico, ma come attività che contribuisce a risolvere una carenza educativa che è a sua volta fonte di ulteriori difficoltà, sia per l'autostima che per il processo di inserimento nel gruppo dei coetanei;

giochi didattici, giochi manipolativi e di movimento;

conoscenza diretta di luoghi e spazi nel territorio, quali ad es. biblioteca, vie, piazze, oratorio, negozi, servizi, etc., con la costruzione di plastici, disegni, etc.;

gite, escursioni, frequenza di coetanei, etc. .

L'attività scelta di volta in volta è quella che permette di affrontare le specifiche difficoltà ed aree carenti del minore (in base al progetto individualizzato) ed al tempo stesso di rispondere alle richieste delle famiglie, per pervenire ad un contratto condiviso. Le attività sono quindi uno strumento flessibile funzionale all'instaurarsi di una relazione affettivamente significativa che permetta il graduale processo di cambiamento nel minore e nella famiglia. L'intervento dell'educatore domiciliare rappresenta l'elemento principale di un intervento allargato su più foci (minore, famiglia, scuola, centri aggregativi, coetanei, etc.) che vede coinvolte, a vario titolo a seconda delle singole situazioni, più figure professionali del servizio, quali ad es. psicologo (con funzioni anche di coordinamento clinico dell'intervento), assistente sociale (coordinatrice dell'intervento domiciliare ed assistenziale), educatore domiciliare, terapisti della riabilitazione (in situazioni con deficit cognitivo-strumentale), etc.

Il singolo progetto, articolato negli obiettivi specifici, si snoda lungo un percorso in cui sono ravvisabili alcune fasi (che sfumano l'una nell'altra e non sono ovviamente da considerarsi in forma schematica) :

a. conoscenza e contratto con la famiglia ed il minore;

b.            accoglienza delle modalità comunicative caratteristiche del minore e della famiglia, fino all'allentamento della diffidenza;

c. evidenziazione degli atteggiamenti e dei comportamenti inadeguati, incongruenti, controproducenti, etc.;

d.            modifica degli stessi, al fine di una più adeguata e corretta rispondenza ai bisogni ed alle esigenze del minore;

e. modifica in contemporanea dei comportamenti dei genitori;

f. riassestamento della dinamica famigliare su modalità comunicative più congruenti ed adeguate;

g.            preparazione al distacco come acquisizione di una maggiore autonomia della famiglia;

h.            chiusura dell'intervento domiciliare.

Lo strumento dell'affido educativo può essere osservato anche dal punto di vista delle variabili tempo e spazio.  Con il termine spazio ci si può riferire a più elementi: lo spazio fisico (luogo dell'incontro tra operatore e utente, luogo in cui avviene l'attività di riparazione), il territorio (spazio inteso come contesto ambientale) e lo 'spazio di libero movimento' (K. Lewin), cioè lo spazio socio-affettivo e relazionale. In tutte queste accezioni l'intervento educativo domiciliare è certamente quello che occupa più spazio in quanto si svolge  parte nella abitazione della famiglia, parte nella sede dei servizi socio-sanitari, parte nell'ambiente esterno con gli spostamenti da un luogo all'altro, con le uscite, le escursioni, etc.; anzi, molto tempo ed energie vengono dedicati proprio alla conoscenza degli spazi, dei loro significati, della loro funzione e dei tempi che richiedono per rapportarvisi, nonché all'ampliamento dello spazio di movimento sociale.

L'intervento domiciliare, superate le fasi iniziali di assestamento, si caratterizza per l'essere spesso centrato proprio sulla condivisione del tempo e dello spazio tra minore ed educatore. Infatti nelle famiglie con carenze psico-affettive ed educative è proprio il senso di stabilità, di continuità e coerenza relazionale che viene di frequente a mancare nel bambino, costretto ad adeguarsi a tempi e spazi imprevedibili, dettati dalle esigenze degli adulti e raramente dalle sue. In conseguenza anche di questo (non solamente) viene meno o è carente anche la fiducia di base ed il senso di integrità del Sé, per cui ci si trova di fronte a bambini disorientati, con difficoltà di concentrazione, irrequieti o passivi e assenti, come se fossero profondamente sfiduciati rispetto ad un ambiente esterno che non considerano essere alla loro portata; si comportano come se non si sentissero riconosciuti e non potessero a loro volta riconoscere l'ambiente ed interagirvi per soddisfare i propri bisogni.

In questi casi il rapporto educativo (da ex-dùcere)  è mirato a costruire una relazione in cui si privilegia la dimensione del 'condurre, portare fuori, far uscire, sviluppare, scoprire', così che sia possibile prendere e farsi prendere per mano (simbolicamente e fattivamente) camminando insieme, raccogliendo impressioni e sensazioni, condividendo pensieri, azioni, emozioni, etc. Il compito di 'guidare e formare in base a determinati principi,  rendere idoneo allo svolgimento di certe funzioni, abituare con l'esercizio e con la pratica ripetuta' (altri significati di ex-dùcere) viene lasciato prioritariamente ad altri soggetti (quali ad es. la scuola), con altri tempi ed in altri spazi.

Una metodologia di lavoro in cui l'intervento educativo domiciliare possa avere valenza clinica e di cambiamento oltre che assistenziale necessita di una serie di elementi e di risorse, di cui i principali sono:

            operatori con preparazione conoscitiva ed esperienziale nel campo della relazione d'aiuto e disponibili a mettere in gioco, utilizzandoli per l'intervento, i propri sentimenti, pensieri, emozioni, atteggiamenti, e quanto altro interviene in modo significativo nel rapporto con l'utenza;

rete socio-educativa coordinata con interventi congruenti in particolar modo per quanto concerne l'attività scolastica (per le sue valenze conoscitive e relazionali);

intervento allargato 'multifocale' (G. Disnan, G. Fava Vizziello)[3]-[4] clinicamente coordinato;

            équipe di lavoro con operatori di diversa professionalità (psicologo, assistente sociale, terapisti della riabilitazione, educatore domiciliare, etc.) che operi in una prospettiva gruppale e congruente (O. Facchinetti)[5];

            alleanza con la famiglia, da costruirsi e rielaborarsi nel tempo;

continua verifica dell'attività e delle ipotesi di lavoro, da parte del gruppo di operatori interessati;

            attività di supervisione, per meglio comprendere lo svolgersi della relazione educatore-minore con le sue valenze transferali e controtransferali.

L'insieme di queste componenti permette spesso di sviluppare un'attività di 'riparazione' che, anziché essere una specie di tamponamento medicamentoso (in certi casi peraltro necessario e prioritario) di ferite e malesseri che tendono poi, finito l'effetto del medicamento, a riproporsi richiedendo una assistenza continua (i 'casi cronici' dei servizi), si configura come una lenta ristrutturazione del contesto relazionale che trova poi un suo funzionamento autonomo e maggiormente soddisfacente per il minore e la sua famiglia. Ciò è reso possibile anche dal fatto che " qualora l’équipe-organismo riesca a progettarsi ed operare in modo coerente e congruente sulla base di ipotesi condivise, i singoli interventi differenziati che vengono attuati possono considerarsi 'foci' di un intervento più ampio. In tal modo il bambino riceve messaggi che gradualmente stimolano il ripristino di connessioni tra i piani del Sé, riattivando le potenzialità di crescita ed un miglior funzionamento grazie anche al fatto che può poggiare nelle mani dell'adulto le sue difficoltà senza doversi far carico di compensare le insufficienze dell'ambiente."[6]

                                                                                                                                                                                                                               

INTEGRAZIONI  BIBLIOGRAFICHE

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DISNAN G., L'intervento multifocale in età evolutiva, in: MARELLA L. FACCHINETTI O.(a cura di), Lo psicologo di­scusso - itinerari e percorsi nel servizio pubblico, Milano, FrancoAngeli, 1992

FACCHINETTI O., 'Blocchi di apprendimento: rapporti tra affettivo e cognitivo', in: Annali Scuola Europea di Formazione in Psicoterapia Funzionale e Corporea vol. 1, Sintesi, Napoli, 1990;

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FACCHINETTI O., Il gruppo-organismo nell'intervento istituzionale in età evolutiva, in: Atti del II congresso nazionale di psicoterapia corporea, in corso di stampa;

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FAVA VIZZIELLO G., Per una clinica di neuropsichiatria infantile, Masson, Milano, 1981

             "                  Interventi di psicologia clinica in neuropsichiatria infantile, Masson, Milano, 1983

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RISPOLI L. FACCHINETTI O., La psicoterapia funzionale in un servizio materno-infantile, Psicologia e so­cietà, XV(XXXVII), 1-3, pp.75-83, 1990

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            "                    Sviluppo affettivo e ambiente (1965), Armando, Roma, 1970



[1] Rispoli L. Andriello B., Psicoterapia corporea e ana­lisi del carattere, Boringhieri,  Torino, 1988, p. 96

[2] Rispoli L. Facchinetti O., La psicoterapia funzionale in un servizio Materno-infantile, Psicologia e so­cietà, XV(XXXVII), 1-3, pp.75-83, 1990

[3] DISNAN G., L'intervento multifocale in età evolutiva, in: MARELLA L. FACCHINETTI O.(a cura di), Lo psicologo di­scusso - itinerari e percorsi nel servizio pubblico, Milano, FrancoAngeli, 1992

[4] FAVA VIZZIELLO G., Per una clinica di neuropsichiatria infantile, Masson, Milano, 1981

             "                  Interventi di psicologia clinica in neuropsichiatria infantile, Masson, Milano, 1983

[5]FACCHINETTI O., Il gruppo-organismo nell'intervento istituzionale in età evolutiva, in: Atti del II congresso nazionale di psicoterapia corporea, in corso di stampa;

[6] FACCHINETTI O., Istituzioni e modello funzionale in psicoterapia, in: atti del XXII congresso degli psicologi italiani, S.Marino, 1991, in corso di stampa