La psicologia funzionale, partendo dall'ipotesi che nello sviluppo dell'individuo è possibile ravvisare una continuità di fondo, considera la fase adolescenziale come un insieme di graduali, se pur tumultuosi, cambiamenti su tutti i piani del Sé, piuttosto che vedervi la nascita di nuove funzioni o la irruzione di processi improvvisi. Di fronte a questa “inquietudine che muta”, per citare ancora Galimberti, viene sollecitata, più che in altre esperienze, la disponibilità del terapeuta a far leva sulla mobilità della sua presenza, ad aprire la gamma delle emozioni controtransferali, ad utilizzare la modularità della sua funzione nelle varie fasi del processo terapeutico.
Il grande tema portante della relazione transferale in psicoterapia, vale a dire il passaggio dalla dipendenza alla elaborazione ed allo scioglimento del legame profondo nella direzione dell'autonomia, è proprio la condizione in cui si dibatte l'individuo nel segmento di esistenza in cui, scopertosi con stupore e disorientamento non più piccolo e bambino, si muove fra mille contraddizioni alla ricerca di una sua autonomia.
Per meglio focalizzare i passi di questo cammino all'interno di un intervento terapeutico, proviamo a porre in luce gli elementi rilevanti nella possibile configurazione del Sé nell'adolescenza, secondo il modello della psicologia funzionale, che considera vari piani e varie funzioni raggruppabili in quattro grandi aree, emotiva, posturale-muscolare, fisiologica, cognitivo-simbolica.
I cambiamenti della forma del corpo, sul piano morfologico e su quello fisiologico-ormonale, l'insorgere di una tensione sessuale che, vissuta su più piani (emozioni, pensieri, sensazioni ) investe l'organismo e spinge al confronto e alla scoperta dell'altro, rappresentano alcuni aspetti caratteristici di questa fase, di questo momento della vita nello sviluppo dell’individuo e operano una radicale trasformazione nel rapporto con l'adulto. Diventare grandi sul versante dimensionale (morfologico) o rispetto a mutati equilibri ormonali favorisce una sensazione di instabilità che dilaga e si riversa in ambiti affettivi; essa è spesso rinforzata dall'inquietudine del genitore di fronte ad un figlio che subisce modifiche in tempi troppo rapidi perché ad essi corrispondano un adattamento adeguato ed una accettazione rassicurante.
Inoltre la ricerca della autonomia conduce a spostare l’attenzione affettiva, l'interesse e i termini di confronto al di fuori della cerchia familiare, dando luogo, come è noto, prima ad una fase di identificazione e condivisione con individui del proprio stesso sesso e poi ad innamoramenti intensissimi e sconvolgenti. Sul piano emotivo il distacco dal mondo familiare, sollecitato con urgenza da esigenze apparentemente insorte con una fisionomia subitanea e drammatica, non sempre viene vissuto in modo sereno e indolore. Un'emozione complessiva di squilibrio e di instabilità, di insicurezza negli scambi comunicativi, sulle informazioni che riguardano la vita, il sesso, il comportamento da un lato, ma dall'altro una mancanza e un bisogno affettivo profondi stanno alla base del formarsi del gruppo dei pari.
La identificazione con il gruppo e lo spostamento all'esterno della famiglia del desiderio di condivisione, di sostegno e di nutrimento incapsulano la paura di rischiare la propria identità; il che impone allo psicoterapeuta una riflessione che vada ben oltre la genesi della aggregazione e gli esiti in ambito sociale e suggerisce, quando è possibile, l'uso della psicoterapia di gruppo come strumento preferibile o, nei casi in cui non sia praticabile, di tenere fortemente in conto, nella psicoterapia individuale, delle funzioni di Sé ausiliario (accoglimento, contenimento, limite, amplificazione, sostegno, mobilizzazione della gamma emozionale etc.) cui il gruppo assolve nella sua dinamica.
Il fenomeno del “camaleontismo”, favorito nei “nuovi” adolescenti dalla cultura dei media, dall'imposizione di modelli centralizzati di immagini stereotipate, di informazioni capaci di modellare anche i sentimenti e i bisogni, rende la comunicazione sempre più deprivata di identità e contatto. Nella omologazione, contraddittori e silenti, si mescolano desiderio e paura. Zelig, l'uomo camaleonte del film di Woody Allen si protegge, adeguandosi anche somaticamente a chi lo circonda. Alla domanda della Dott. Fletcher : “Insomma lei vuole sentirsi protetto? Al sicuro?” Risponde: “Voglio che mi si voglia bene”.
L’instabilità e l’inquietudine sono sfumature, ibridazioni dell’emozione di paura. Nella relazione terapeutica l’adolescente mette molto in gioco il tema della paura, pur non narrandolo consapevolmente; altri relatori hanno detto che l’adolescente narra, che il disagio può raccontare, che l’anoressica non racconta il suo disagio, ma lo grida, dice Lavanchy, e sono molti gli elementi di questi disagi che l’adolescente non riesce a raccontare. Alcuni li racconta, li riferisce, altri viceversa devono essere da noi in qualche modo visti e letti riferendoci non soltanto al piano cognitivo, ma anche a quello dell’espressione del disagio somatico, alle incongruenze e disturbi che possono ravvisarsi sugli altri piani del sé, dove la consapevolezza della persona non riesce a giungere.
Il tema della paura riguarda anche la dimensione sociale, il senso di mancanza di punti di riferimento, di una instabilità che cresce anche per la mancanza di situazioni portanti che siano contenitive nell’ambito sociale e che possano comunque accogliere questo momento di inquietudine o perlomeno non peggiorarlo (il gruppo dei pari può assolvere in qualche modo a questo aspetto di contenimento e nutrimento).
Questo senso di mancanza di punti di riferimento e di strutture contenitive è visibile non solo nella sensazione di insicurezza, di timidezza, di mancanza di percezione del proprio corpo, di mancanza di sicurezza della propria immagine corporea, ma anche in veri e propri disturbi molto frequenti: senso di panico, di vertigine, anche con fortissime somatizzazioni per esempio di mancanza di forza nelle gambe; tutta una serie di disagi e di disturbi (disagio forse è un po’ poco perché sono disturbi molto forti e spesso invalidanti) che danno luogo a sintomi fisici che, almeno nella mia pratica, ho visto crescere nel mondo degli adolescenti almeno quanto i disturbi dell’alimentazione.
Questa paura che dilaga, non evidente, chiusa, a volte completamente celata e spesso negata perché rappresentativa di una fragilità infantile che l’adolescente tende a rifiutare a livello consapevole, è una delle emozioni fortemente presenti nella configurazione adolescenziale come momento di instabilità e che ritroviamo intensamente anche nella relazione terapeutica. Paure amplificate dallo squilibrio che nell’adolescenza si instaura a carico della funzione immaginativa, che si condensano in pensieri ossessivi a circuito chiuso, spesso fissati in un sentimento di inadeguatezza, in fantasie di omosessualità, in un angoscioso figurarsi soli, nel segreto di una inconfessabile diversità.
Un’altra emozione portante, quando il paziente è un adolescente, è la qualità dell’aggressività. Quando parlo di aggressività intendo una pulsione espansiva, nel senso di prendere il proprio spazio nel mondo, crescere, sviluppare interessi, curiosità, sviluppare anche il proprio corpo, la percezione, la sessualità, l’amore, l’amicizia. Questa capacità, non sempre nell’adolescente è sorretta da un senso di contenimento da parte delle figure adulte, o da un senso di stabilità rispetto a paure arcaiche che spuntano fuori nell’adolescenza, che rappresentano nuclei antichi nello sviluppo della singola persona.
L’aggressività non trova modo di esprimersi e dà luogo spesso ad una serie di distorsioni della qualità della pulsione: diventa molto di frequente una forma di agitazione, di rabbia pervasiva, di provocazione pronta ad innescarsi; è certamente un modo, da parte della persona, di uscire allo scoperto, di cercare in qualche modo la propria identità, di provocare uno scontro anche se non fortissimo, ma di tipo provocativo, quasi per differenziarsi meglio, per auto affermare, autoconcepire come senso di sé. Quindi questa aggressività spesso prende la forma di una rabbia continuamente pronta ad innescarsi, più vicina alla litigiosità, alla provocatività, a una dipendenza aggressiva, piuttosto che ad una vera e propria rabbia aperta che abbia a che vedere con la durezza, la forza, l’impenetrabilità, la forza calma, la capacità di affermazione. Affermazione che significa anche affrontare l’altro, quindi anche il proprio simile, e poi soprattutto l’adulto con cui l’adolescente tende continuamente a misurarsi; anche la forma opposta, la netta esclusione e separazione è comunque un modo di essere dipendente, un modo di relativizzarsi rispetto all’adulto.
E ancora, nella relazione terapeutica, sono presenti quelle sfumature di tenerezza molto sopite, silenti, poiché a questa negazione della fragilità vissuta come infantile, appartiene non solo la vergogna della tenerezza, ma anche l’impossibilità di percepirsi come corpo tenero, pur essendo un corpo molto bisognoso di tenerezza. Tenerezza per l’altro, tenerezza per sé, molto difficile da mettersi in gioco nella relazione perché sommersi dai pensieri ipercritici nei propri confronti e anche da una sensazione di disprezzo per quello che riguarda gli aspetti di debolezza, di mollezza, di fragilità infantile, in cui si ha timore di rimanere intrappolati; la tenerezza per l'altro, a sua volta, incontra la barriera del nucleo irrisolto di paura, dipendenza, rabbia.
Il desiderio di dire la propria, asserire, contare, di affermare la propria identità ed autonomia, di denunciare i limiti della onnipotenza del genitore, si radica nella voglia di trasformare il mondo, scandita da una continuativa e ripetuta trasgressività.
L'immaginazione progettuale non può dispiegarsi serena in un progetto di vita, sia perché gravata da ansie ed insicurezze, sia perché soppiantata da una ipertrofia della funzione immaginativa, da un prevalere del pensiero mistico-magico, da una tendenza alla idealizzazione che, in ultima analisi, hanno la finalità sotterranea di tenere a bada, controllandoli, gli inquietanti e "prosaici" cambiamenti in atto nel Sé. L'ironia e l'umorismo, l'accettazione del gioco e della leggerezza, per non "prendere tutto troppo sul serio", non vengono attivati al fine di sdrammatizzare, perché inibiti da uno spasmodico controllo, da una eccessiva tensione ad essere attenti a se stessi, ad ogni piccolo gesto ed al suo significato.
Quando noi ci troviamo di fronte a questo percorso di emozioni piuttosto indurite, chiuse, incapsulate, dobbiamo porci il problema di scioglierle, cioè di riportare l’affettività e le emozioni del paziente nella relazione terapeutica. Ciò significa anche poter aprire il corpo, aprire l’organismo, aprire nuovamente tutto il sé per poter indirizzare le emozioni nella loro giusta qualità e valenza. Il problema fondamentale che vorrei sottolineare è che, per quello che riguarda la terapia con un adolescente, ci sono degli aspetti che possiamo mettere maggiormente in evidenza nell’andamento del rapporto, per quanto concerne le singole fasi della terapia.
Come può dunque la psicoterapia fendere questo muro di fantasie e movimenti emozionali per accedere ai nuclei del Sé? Quali sono le possibili brecce in una configurazione del Sé adolescenziale? Quale specificità può o deve assumere un intervento psicoterapeutico nelle varie fasi della terapia se il paziente è un adolescente? E' possibile, al di la della storia individuale, enucleare delle costanti?
Proviamo, in base a quanto detto, ad osservare nella relazione l'evolversi del transfert e la funzione del terapeuta soprattutto per quanto riguarda l'uso del Sé, quello del paziente ma anche il proprio, come Sé ausiliario.
Pensando alla terapia come un processo che naturalmente ha varie fasi, possiamo ritenere che per un adolescente alcune di queste debbano essere maggiormente curate o comunque giocate in modo diverso rispetto alla terapia con una persona adulta o una terapia infantile. Ad esempio nella terapia con un paziente adulto assistiamo molto spesso ad una prima fase rappresentata da una prima forma di affidamento, cioè il paziente all’inizio ha un affidamento iniziale, un primo momento quasi di condensazione affettiva; è la stessa decisione di avere intrapreso la terapia che porta ad una apertura, ad uno sprigionarsi nei primi colloqui di ricordi, di emozioni, di sensazioni, di vissuti che poi tenderanno mano a mano a scomparire nelle fasi successive.
Per quanto riguarda un adolescente la seduta terapeutica è ben diversa, questa prima fase non è sempre così fiduciosa poiché la decisione di intraprendere la terapia non è sempre presa direttamente dall’adolescente, anzi il più delle volte è il genitore che conduce in terapia la persona; quindi dobbiamo aspettarci un affidamento alquanto ritratto e limitato, con tutti i segni di una prima diffidenza. É indispensabile pertanto che già dalle prime esperienze, nell'accogliere il falso Sé (la struttura irrigidita da stereotipie e carenze di interazione fra i singoli piani, l'automatismo nell'interagire) il terapeuta si muova a “prendere” il paziente, anticipando i tempi di un incontro affettivo profondo.
La prima fase per l’adolescente è quindi un momento di irrigidimento, di sfiducia, di difficoltà di affidarsi; come dice Gasseau questa difficoltà di lasciarsi andare sul piano affettivo è tipica dell’adolescenza, che riguarda anche le relazioni con l’altro, sia nel gruppo che con la persona dell’altro sesso. Questo primo momento dunque pone già fortemente nella relazione transferale la possibilità di mettere in gioco un bisogno primario dell’individuo e del bambino, cioè quello di essere preso; preso nel senso più globale del termine, che per l’adolescente significa anche poter rispondere al bisogno profondo di essere visto, essere protetto, essere guidato, essere preso in considerazione, non essere giudicato (quindi con poca tendenza in questo caso alle interpretazioni) nel momento un cui noi accogliamo questa parte rigida e irrigidita ancora sconnessa del Sé del paziente. In qualche modo rispondere, fin dal primo momento, a livello profondo su tutti i piani del Sé per recuperare nella seduta terapeutica e nel processo terapeutico il bisogno di essere completamente preso: l'essere presi è una delle esperienze più importanti per la continuità del Sé del bambino e va ricostruita in terapia, sia in senso metaforico che in senso propriamente fisico. La opportunità di ritrovarla attiene a quella fase in cui si regredisce ai nuclei profondi che, per l'adolescente vuol dire percepire di essere costantemente tenuto, protetto, capito, visto.
Accanto a questo bisogno profondo, che in effetti attraversa tutti i processi terapeutici nel passaggio dalla dipendenza allo scioglimento e alla elaborazione della autonomia, io credo che nella terapia con l’adolescente ci sia qualcosa che ha una, sebbene piccolissima, analogia con la terapia infantile.
Nella psicoterapia infantile la relazione transferale, percettiva, motoria, emotiva, non avviene “come se”, poiché il terapeuta non è come se fosse un genitore, ma è direttamente una figura che assolve a una funzione parentale, genitoriale. Per l’adolescente certo non è così, ma in qualche modo si muovono parallelamente due piani. Uno è quello in cui il terapeuta è la figura con cui poter rivivere nella regressione i vissuti affettivi più celati relativi alle figure di riferimento e tutti quei movimenti che permettono di recuperare i vissuti arcaici e quindi di sciogliere le paure antiche, le rabbie, le emozioni.
Accanto a questo, l’adolescente utilizza una guida adulta che lo conduce per mano nel suo processo di cambiamento; permane quindi stabilmente la necessità da parte del terapeuta di essere in qualche modo (perché glielo richiede il paziente stesso) una persona diversa dal suo ambito famigliare. Una presenza che conduca un po’ a tessere un filo rosso durante tutta la terapia e che permetta all’adolescente di sciogliere e allentare il suo controllo spasmodico sulle emozioni tenute a freno o comunque non messe in gioco nella relazione; al tempo stesso gli permetta di riferirsi continuamente al terapeuta nella sua funzione di Sé ausiliario, funzione molto importante nel processo terapeutico, non solo sul piano cognitivo o emotivo, ma anche su quello della facilitazione di movimenti, della facilitazione di allentamenti della rigidità muscolare, dello scioglimento di quello che fisiologicamente a livello degli apparati e dei sistemi interni, impedisce al corpo di far percepire e di fare sentire esattamente ciò che sta vivendo, per recuperare quelle percezioni che l’adolescente ha piuttosto slegate dal piano delle fantasie.
Alla fase di accoglimento del “falso Sé” segue, in psicoterapia funzionale, il lavoro sul transfert negativo profondo: l'emergere della negatività, della oppositività, delle paure chiuse avviene attraverso una apertura su tutti i piani del Sé.
Ad esempio, andare a sciogliere gli atteggiamenti di controllo eccessivo e razionalizzante, sconnessi dalle sensazioni, nel caso di un adolescente non significa porre al centro l'interpretazione sul piano cognitivo, che apparirebbe giudicante e aumenterebbe il timore di non essere capito e accettato. La strada terapeutica è quella di allentare il controllo su altri piani del Sé, in particolare quelli che, come il funzionamento dei sistemi fisiologici interni o delle contratture muscolari, consentono di raggiungere sensazioni precise, non inquinate dalle fantasie, piacevoli e non paurose. Solo successivamente al contatto con le sensazioni si può ripristinare il legame con i pensieri che non vanno via lontano, arbitrari, ma sono ancorati e perciò consapevoli.
Questo primo passo consente di andare oltre, al di là della paura , del rifiuto del contatto, dell'insicurezza del corpo, delle proprie esigenze avvertite in precedenza come estranee, diverse, pericolose, di riconnettere infine il piano dell'immaginazione e delle fantasie alle sensazioni e ai movimenti. I pensieri ossessivi sono dipanati dall'apertura diretta e sempre più consapevole del grumo di paura; rinasce il senso di sicurezza di sé e della propria identità, anche di quella sessuale. E' solo a questo punto che il terapeuta può andare a “toccare” le emozioni più stratificate di ostilità e di negatività e direzionarle sulla sua persona.
In psicoterapia funzionale chiamiamo regressione psicosomatica l'affiorare del materiale più antico collegato alle emozioni attuali. Esso riemerge nel momento in cui il corpo riattraversa movimenti e posizioni che richiamano esattamente i movimenti e le posizioni all'interno dei quali è stato bloccato il tessuto emotivo arcaico.
Nella psicoterapia dell'adolescente questo moto regressivo deve ancor più indirizzarsi a ritrovare livelli o strati di funzionamento in cui l'emozione non è scissa dal comportamento né dal movimento corporeo in tutta la sua ampiezza e potenzialità.
L'adolescente, al contrario dell'adulto, non ritorna volentieri ad “essere bambino”, poiché è vicino cronologicamente a quella età ed è tutto preso dall'ansia di discostarsi dalla fragilità e dalla tenera dipendenza dell'infanzia. Ma, a maggior ragione, può cogliere, se opportunamente guidato verso un'area di regressione, il filo rosso fra il riaffiorare di elementi inscritti nella memoria corporea e le conflittualità del presente.
Il significato latente dei sentimenti di rabbia e di paura ed il collegamento con ricordi e dettagli importanti vengono a galla: il corpo nell'apertura posturale e nella modifica del respiro non funge più da filtro delle sensazioni e delle percezioni.
L'agire del paziente in relazione all'agire del terapeuta, non essendo un acting-out, non sostituisce l'elaborazione del vissuto, anzi favorisce la possibilità di sciogliere nella relazione l'affettività apparentemente soffocata.
Appare ora evidente il motivo peculiare per cui in tutto il percorso di elaborazione e scioglimento della dipendenza in una psicoterapia con l'adolescente deve essere mantenuta ben salda e presente fin dall'inizio la funzione, da parte del terapeuta, di Sé ausiliario. Tale importante funzione, nel nostro modello teorico, consiste nel mettere in gioco consapevolmente e direzionatamente tutti i piani del Sé e le sue funzioni, dal cognitivo- simbolico al posturale, dall'emotivo al fisiologico.
L'intervento di supporto non si limita perciò solo alla parte cognitiva o emotiva, ma si affianca e si sostituisce al Sé del paziente, laddove le funzioni si rivelino deboli, sclerotizzate e sconnesse. Nel lavoro con gli adolescenti, accanto al supporto richiesto dalla specificità della fase della terapia e quindi modulato nel campo transferale, è sempre presente e più ferma e massiccia una struttura di sostegno, per così dire portante, che assicura solidità ed argine all'organismo in tumulto e lo contiene durante il suo processo di crescita e di trasformazione, quasi tenendolo un po' per mano.
Penso alle figure che hanno accompagnato la storia dell’individuo, certamente i genitori, il nonno, ecc., che hanno avuto in certi momenti storici forse ora un po’ lontani, una funzione importantissima. Fra queste figure, con questa funzione terapeutica di consiglio e di suggerimento, non in termini di cosa devi fare, ma in termini di presenza argine che l’adolescente realmente richiede, penso alla figura settecentesca del pedagogo, del precettore. Questa persona in fondo non era soltanto una figura che aiutava sul piano dell’apprendimento, ma era anche molto presente sul piano quasi dell’assistente di crescita, aiutava in qualche modo a crescere. Non voglio certamente dire che questa del pedagogo sia una funzione da recuperare all’interno della terapia, ma era un esempio per far comprendere come in questo caso si debba molto essere attenti a recuperare funzioni ausiliarie riguardanti il cambiamento, l’allentamento del controllo, l’allentamento e la mancanza di contatto che non solo sono legati naturalmente alla difficoltà di lasciarsi andare da parte dell’adolescente, ma sono legati al suo momento, al momento della sua vita, un momento di trasformazione in cui volentieri si riferisce ad una persona come ad una guida, come un punto di riferimento affettivo esterno alla famiglia.
Questo elemento credo vada tenuto presente anche quando si passa da una terapia individuale a una terapia di gruppo. Il gruppo può assumere tante funzioni nella psicoterapia di gruppo, in questo caso io penso a quella di nutrimento, di argine, di limite nella creazione di confini corporei che sono indispensabili proprio come nella terapia individuale.